Omelia del Vescovo per la Santa Messa Crismale 6 aprile 2023 – Cattedrale di San Michele Arcangelo – Albenga

Essere in Cristo per essere con per  essere per 

  1. Carissimi fratelli e sorelle, eccoci anche in questo anno del Signore radunati come famiglia diocesana per la Santa Messa Crismale. “Questa messa che il vescovo concelebra con il suo presbiterio e nella quale consacra il santo crisma e benedice gli altri oli, è come la manifestazione della comunione dei presbiteri con il loro vescovo” (CE 274), così recita il Cerimoniale dei vescovi. E’ una vera festa del sacerdozio ministeriale all’interno di tutto il popolo sacerdotale, profetico e regale, “è il giorno natale del nostro sacerdozio ed è, perciò, anche la nostra festa annuale” diceva San Giovanni Paolo II, festa intensamente orientata  verso Cristo il ‘consacrato per mezzo dell’unzione’ (cfr Lc 4,18; At 10,38; Eb 1,99) festa che  invita tutti noi ad avere gli occhi ben fissi su di lui (cfr Lc 4,21). L’unzione di Spirito Santo ricevuta da Gesù nell’Incarnazione e nella teofania al Giordano è partecipata a tutti i membri della Chiesa per mezzo del Battesimo e della Cresima; vescovo, presbiteri e diaconi sono consacrati a titolo speciale a servizio del popolo sacerdotale, dal quale sono assunti e per il quale sono costituiti ministri.
  2. Il sacerdozio ministeriale non è stato voluto per se stesso, né soltanto in riferimento a Cristo, ma in vista del sacerdozio della famiglia dei figli di Dio, per renderne possibile la crescita e l’esercizio. “Non si deve pensare al sacerdozio ordinato come se fosse anteriore alla Chiesa, perché è totalmente al servizio della Chiesa stessa; ma neppure come se fosse posteriore alla comunità ecclesiale, quasi che questa possa essere concepita come già costituita senza tale sacerdozio” (PDV 16). Il sacerdozio ministeriale è tutto finalizzato al sacerdozio dei fedeli. Noi ministri ordinati, vescovi, preti e diaconi ci siamo per voi, carissimi fratelli e sorelle! La nostra vita/missione  è interamente dedicata a promuovere  “il sacerdozio battesimale di tutto il popolo di Dio, conducendolo alla sua piena attuazione ecclesiale…(i presbiteri)  aiutano ad esercitare in pienezza il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa” (PDV 17).. A noi il compito di formare alla vita cristiana, di far maturare nei battezzati la coscienza sacerdotale, di  stimolare in loro l’apprezzamento per il culto liturgico, la gioia dell’offerta e la dedizione apostolica al servizio degli altri. Questo compito formativo spetta certamente anche ai  laici, ma ai ministri viene affidato a nuovo titolo, in nome della loro missione di pastori. L’ordinazione sacerdotale ci pone a servizio di Cristo stesso, che ci costituisce suoi ambasciatori e dispensatori dei suoi misteri. Con la nostra presenza, ma soprattutto con la nostra attività ministeriale rappresentiamo visibilmente la persona di Cristo e ne attualizziamo la mediazione sacerdotale. Non siamo i sostituti di un assente, né gli intermediari tra Cristo e la comunità, ma il segno vivo della sua presenza e attività di pastore. Il sacerdozio dei battezzati non basta a tutto, è un’illusione: il sacerdozio dei battezzati per poter essere esercitato ha assolutamente bisogno del sacerdozio ministeriale, perché ha bisogno della mediazione sacerdotale di Cristo, che si rende presente ed efficace mediante il sacerdozio ministeriale. Il sacerdozio dei battezzati ha assolutamente bisogno della mediazione sacerdotale di Cristo, perché nessun battezzato è in grado di realizzare da sé la trasformazione sacerdotale della sua esistenza personale. Soltanto con la mediazione di Cristo i battezzati possono ricevere l’amore che viene da Dio e servirsi di questo amore per una trasformazione molto positiva del mondo. Soltanto uniti a Cristo possono vivere le due dimensioni dell’amore: la docilità filiale verso Dio e la solidarietà fraterna verso i fratelli e le sorelle. Nessuna pagina del Nuovo Testamento fa pensare che un battezzato possa bastare a se stesso: è sempre affermata la relazione indispensabile con Cristo. Il Concilio Vaticano II e il Magistero successivo usano la formula arricchita di “in persona Christi capitis et pastoris” (PO 6; LG 28, PDV  15.), che indica più efficacemente la dedizione al popolo di Dio: “I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo capo e pastore, ne proclamano autorevolmente la parola, ne ripetono i gesti di perdono e di offerta di salvezza” (ivi, 15).
  3. Vorrei recuperare con voi in questa solenne e nel contempo famigliare eucaristia, un’espressione molto usata, che viene da lontano e vorrei approfondirla un po’ evidenziando la sua quintessenza relazionale; quest’anno, lo sapete, ci stiamo impegnando nel nostro percorso pastorale legato al cammino sinodale della Chiesa italiana, a lavorare sulla qualità cristica delle nostre relazioni; perché dunque non soffermarci un poco in questo clima di preghiera unico e tanto suggestivo a penetrare il senso della relazione pastorale tipica del prete, relazione che è sovrapponibile al termine  oggi alquanto desueto di cura animarum. Se desueto non significa però che, purificato da alcuni riduzionismi, abbia perso di  densità semantica e di sensatezza per il nostro  agire  L’espressione appare solo nel quarto secolo dopo Cristo e il primo ad utilizzarla pare sia stato San Basilio di Cesarea (330-378) seguito da San Gregorio di Nazianzo (325-390)  e san Giovanni Crisostomo (344/354- 407) epiméleia ton psychòn. Nel Medioevo la cura d’anime trova una delle sue forme principali nella confessione: il confessore deve accogliere il penitente more periti medici, come un medico esperto, avere un comportamento esemplare e partendo dall’analisi critica di se stesso, deve esercitare con prudenza e generosità il potere di misericordia affidatogli. Si può cogliere l’espressione nel suo versante soggettivo e nel suo versante oggettivo; all’inizio prevale il senso soggettivo,  prevarrà poi  il senso oggettivo dal periodo carolingio. Il senso soggettivo coglie l’atteggiamento del prete, il senso oggettivo ‘le cose che deve fare un buon prete’. Da un lato il prendersi cura dell’altro, dall’altro l’aver cura della Chiesa di Dio alla maniera del buon padre di famiglia  (cfr 1Tm 3,5).
  4. La nostra riflessione si concentrerà sul senso soggettivo, quello oggettivo lo rinviamo al prossimo anno a Dio piacendo. Può essere utile un po’ di etimologia. Nella lingua greca epiméleia viene da epimeleomai  e vuol dire ‘prendersi cura’. Nella lingua latina  cura’ viene da quia cor urat:  ‘perché scalda il cuore’; la parola ‘anima’ va letta nell’accezione che aveva nel latino medievale, semplicemente ‘uomo’, ‘persona umana’, ‘vita’; anche il testo latino di Atti degli Apostoli 27,10 usa il termine animarum in questo senso. Dunque  stiamo parlando  di una passione d’amore che brucia, si appassiona, si  spende, soffre e gioisce; una passione che porta a coltivare relazioni calde e profonde, immerse e colorate dell’affezione a Cristo, passione che mi fa  stare volentieri con la gente, mi fa aprire alle persone con dosato equilibrio e gioiosa simpatia:  con loro fratelli, per loro padri e madri. Prendersi cura è forma eminente della carità pastorale, è il cuore del pastore. La cura animarum è gioco di relazioni pulite e caste, generative, oblative e non captative.  Senza un briciolo di  armonia e maturità affettiva e soprattutto senza radicazione in Cristo  tutto ciò può diventare una grande trappola; gli psicologi le chiamano  lifetraps: quanti  preti, laici, religiosi e religiose ho incontrato nel mio  ministero di prete e di consulente! Preti intrappolati, invischiati in relazioni tossiche che appesantiscono il cammino, difficili da superare. Il popolo di Dio ha bisogno di pastori “umani”, cioè di persone affettivamente stabili, interiormente autentiche e libere, serene dal punto di vista psico-affettivo, capaci di vivere relazioni interpersonali pacifiche ed equilibrate, ben ancorate a Cristo. Non fraintendetemi, non sto disegnando un profilo semplicemente  orizzontale  della nostra relazionalità  e del nostro ‘prenderci cura di’, ci muoviamo nella piena consapevolezza che solo la radicazione in Cristo rende tutto questo possibile per essere con e per essere per dobbiamo essere in Cristo: Lui è la pienezza, cioè la forma compiuta dell’umano e ci rende partecipi di questa Sua umanità perfetta,  la sua umanità è l’umanità del Figlio di Dio. Non si ribadisce solo il primato di Cristo come unico ed universale salvatore e redentore, ma la Sua ‘singolarità’  singolarità che dice un primato di Cristo tout-court, la cui centralità è originaria, cioè non dipende dal peccato di Adamo e non può essere pensata semplicemente in termini “medicinali”: Cristo Morto e Risorto, il Primogenito, è anche il Capo della Creazione per mezzo del quale esistono tutte le cose, e non solo Colui che redime l’uomo peccatore. In Lui, l’uomo è pensato, voluto e creato e non solo redento. Nel Suo atto predestinativo-creativo, la Trinità ha in mente Cristo come immagine perfetta dell’uomo e noi siamo creati in Cristo, siamo figli nel Figlio e per questo, Cristo, “immagine dell’invisibile Dio”(Col 1,15), è il “modello” proposto ad ogni uomo per il compimento della propria vita.  E quando diciamo ‘modello’ dobbiamo capirci bene: Cristo non va inteso come estraneo all’uomo, così che questi debba innanzitutto sforzarsi di imitarLo rischiando magari di ritrovarsi frustrato nella sua costitutiva fragilità. Per la grazia dello Spirito l’uomo scopre “in se stesso l’appartenenza a Cristo” (Giovanni Paolo II,  Dominum et vivificantem 59) e  in Lui la sua verità ultima.
  5. Tutto quanto abbiamo detto presuppone che mai dimentichiamo di trascurare la buona relazione con noi stessi: l’epiméleia heautou ‘la cura di sé’: preghiera, studio, vita ordinata, igiene personale e della propria abitazione, alimentazione corretta, cura del riposo e del tempo libero, coltivazione di amicizie fraterne. La nostra umanità è trasparenza di Dio, è in Cristo “immagine dell’invisibile Dio” (Col 1,15).  In questa solenne Eucaristia colgo l’occasione  per ringraziare tutti voi presbiteri e diaconi per quanto fate con tanta pazienza ed impegno per i nostri fedeli laici e religiose, per l’aiuto concreto che offrite al vescovo, visibile principio di unità nella sua Chiesa. I preti costituiscono con il loro vescovo un unico presbiterio e questo significa che non esiste vescovo senza il suo presbiterio e a sua volta, il presbiterio è sempre cum episcopo. Il vescovo senza i suoi presbiteri sarebbe inutile, i presbiteri senza   il vescovo sarebbero liberi professionisti di un’azienda dello spirito. Lo Spirito del Signore con cui siamo stati unti ci ottenga l’unzione spirituale che armonizza tutte le dimensioni dell’uomo, esalti e plasmi ogni nostra fibra per diffondere nel mondo il buon profumo di Cristo! Santa Pasqua a voi tutti ed alle vostre comunità parrocchiali!

 

+ Guglielmo Borghetti, Vescovo

 

Albenga, 6 aprile 2023
Giovedì santo

 

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